Sono trascorsi sedici anni da quel fatidico 15 marzo 1997, giorno e anno della legge n° 59 sul decentramento amministrativo, nota come Legge Bassanini, che nel suo articolo 21 prevedeva la cosiddetta “autonomia delle istituzioni scolastiche”.
Sedici anni di interventi legislativi sulla scuola miranti all’aziendalizzazione di tutto il sistema formativo,
compresa l’Università e gli Istituti di ricerca. Sedici anni di
addestramento dei docenti a esprimersi con linguaggi aziendali,
interiorizzati al punto da apparire quasi naturali. Sedici anni di
svuotamento dei contenuti culturali e disciplinari per orientare
l’intero sistema formativo verso “competenze” rilevabili con misurazioni
valutative in obbedienza a quanto imposto da organismi europei di
natura economica.
Quando
si parla di scuola e formazione nei luoghi deputati a decidere le sorti
dell’intero sistema, quindi in Parlamento, nella Commissione cultura
della Camera ecc. … ci si esprime in questi termini: «La valorizzazione
del capitale umano deve essere un aspetto centrale: sarà necessario
mirare all’accrescimento dei livelli di istruzione della forza lavoro,
che sono ancora oggi nettamente inferiori alla media europea, anche tra i
più giovani. Vi contribuiranno interventi mirati sulle scuole e sulle
aree in ritardo, identificando i fabbisogni, anche mediante i test
elaborati dall’INVALSI, e la revisione del sistema di selezione,
allocazione e valorizzazione degli insegnanti» (Mario Monti, Senato, 17 novembre 2011).
Oppure, con la profondità di pensiero di Valentina Aprea, il cui nome è stato abbinato alla Commissione cultura (!) e a numerose proposte di legge: «Dopo
un primo bilancio della strategia di Lisbona, l’Unione Europea guarda
già ai prossimi dieci anni. In particolare, tra le priorità di Europa
2020, troviamo quella di una crescita intelligente basata cioè su
un’economia della conoscenza e dell’innovazione… La chiave di volta per
camminare lungo questa direttrice… è l’integrazione tra il sistema
educativo di istruzione e formazione e il mercato del lavoro.
Un’integrazione che si realizza gradualmente basandosi proprio sul
concetto di “ competenze personali”… è dunque una necessità
improrogabile la rotta da tenere: attenzione privilegiata al mondo del
lavoro e apprendimento per competenze personali.» (Valentina Aprea, 5 mosse per mandare in soffitta la vecchia scuola).
In tutta evidenza per realizzare tali finalità ci vogliono scuole “autonome”, dove per “autonome” si intende scuole che pur mantenendo una forma pubblica siano poste nella condizione giuridica di agire come istituti privati.
La
forma pubblica è ormai talmente residuale che, a livello parlamentare,
ormai si discute apertamente di trasformare le scuole in fondazioni, cioè in istituzioni mediante le quali i privati perseguono scopi collettivi.
Poco
importa se al momento l’ipotesi non è ancora operativa, è solo
questione di tempo. Francamente non capisco lo stupore di chi si
stupisce di questa prospettiva, perché è un destino inscritto nel DNA dell’autonomia scolastica.
Allo scopo di valutare se quanto sta accadendo nelle scuole sotto i nostri occhi è una degenerazione dello spirito dell’autonomia scolastica, o, all’opposto, la sua coerente attuazione, è utile rinfrescare la memoria per ricordare alcuni articoli di quella legge del lontano 1997.
Quella legge ha reso autonome le istituzioni scolastiche attraverso la concessione della personalità giuridica,
proprio per farle diventare permeabili agli interessi extraculturali:
il sesto comma dell’art. 21 della legge Bassanini, prevede la
possibilità di accettare donazioni, eredità e legati e dunque aprirsi ai
condizionamenti dei donatori.
L’ottavo
comma dell’art.7 del regolamento attuativo (approvato dal consiglio dei
ministri del 25 febbraio 1999) consente di stipulare convenzioni
con associazioni o agenzie operanti sul territorio, per la
realizzazione di specifici obiettivi: ciò apre la strada a piegare
obiettivi ed esigenze della scuola anche a finalità non di natura
educativa.
Il decimo comma dello stesso regolamento, rende possibile acquisire servizi e beni mediante la partecipazione a consorzi anche privati
(dunque darsi un interesse economico privato collegato con altri
interessi dello stesso genere). Secondo l’art. 3 del regolamento
attuativo l’autonomia di ogni istituzione scolastica si concretizza nel
suo specifico Piano dell’Offerta Formativa (il POF), un
documento elaborato dal Collegio dei Docenti (sulla base delle scelte di
gestione e di amministrazione definite dal Consiglio di Istituto,
tenendo conto delle proposte delle associazioni informali dei genitori e
degli studenti) cui si assegna il compito di definire addirittura l’identità culturale dell’istituzione scolastica.
Concepire
l’autonomia come delega alle istituzioni scolastiche di darsi ciascuna
singolarmente un proprio piano dell’offerta formativa, operando poi con
strategie di marketing per farsi pubblicità e attirare clienti, oltre ad
essere impossibile in pratica è anche assurdo in un’ottica culturale.
Ma è un assurdo che cessa di essere tale se giudicato in ragione del
fine che il legislatore si è posto. Il fine della legge sull’autonomia scolastica è stato ed è lo scardinamento del carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione
(in cui i diversi tipi di scuola e i singoli istituti scolastici erano
articolazioni settoriali e locali, espressione di un progetto educativo
nazionale), da sostituirsi con un sistema solo formalmente pubblico, organizzato con logica privatistica
in cui ogni singolo istituto, posto nelle condizioni giuridiche di
procacciarsi finanziamenti e risorse, progetta se stesso in competizione
con altre scuole.
A che scopo?
È
importante rileggere cosa scrivevano in quegli anni i protagonisti
della riforma, proprio per evitare di scandalizzarsi a fronte di quanto
si scrive e si fa oggi: «Il Piano dell’offerta formativa (POF)
definisce le strategie generali adottate dalla scuola per migliorare la
qualità dei propri processi formativi… e ciò prevede la valorizzazione
delle risorse di cui ciascuno studente è in possesso per sviluppare le
conoscenze, le competenze e le capacità in funzione di un proficuo
inserimento nella società e nel lavoro… sviluppando la formazione
all’autoimprenditorialità e ponendo attenzione alle componenti cognitive
della formazione fondate sul saper fare… […] Il passaggio alla
scuola dell’autonomia… si riassume come passaggio dalla riorganizzazione
della programmazione didattico-educativa… alla progettazione di
curriculi formativi generatori di competenze, in coerenza con le
esigenze del territorio (il POF), che fa capo al sistema della
formazione integrata. Il tutto mediante una didattica per progetti.» (Quaderni di Iter n. 3, Autonomia 2000. Dalla sperimentazione all’ordinamento, pp. 82-99). È il passaggio dalla scuola dei programmi (quindi
delle “materie” vincolate allo svolgimento di programmi nazionali in
funzione della formazione dell’uomo e del cittadino) alla scuola dei progetti
per sviluppare competenze e «spirito di imprenditorialità» del giovane
studente in funzione delle esigenze del mercato del lavoro. Questo è
stato annunciato, detto e fatto sedici anni fa.
Ad evitare equivoci: nessuno rimpiange la cosiddetta scuola tradizionale - anteriore alla riforma - che era giunta ormai al capolinea.
In
quella scuola i contenuti erano trasmessi in modo meccanico, arido, con
formalismi e modalità didattiche insopportabili. La scuola, però, doveva essere riformata con criteri culturali,
tenendo conto delle diverse fasi evolutive dell’età scolare, allo scopo
di rivitalizzare la finalità vera della scuola, cioè promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani.
È stata invece imboccata la strada dell’aziendalizzazione forzata
i cui moduli organizzativi sono necessariamente distruttivi se
applicati a un’istituzione la cui logica di funzionamento risponde ad
altri scopi e finalità. Se organizzassimo un’azienda con principi tratti
dall’universo scuola sicuramente fallirebbe. E viceversa. Quest’ovvietà
non è più oggetto di discussione: il dogma del totalitarismo aziendalistico ha ormai colonizzato il pensiero e le coscienze.
A tal proposito merita di essere segnalato il saggio di Nicola Capone Libertà di ricerca e organizzazione della cultura
(La scuola di Pitagora, Napoli, 2013) che dimostra con rigore
documentale come il mondo della cultura e della scienza abbia ormai
accettato come una sorta di destino ineluttabile il fatto che tutto il
sistema della formazione debba essere strumento funzionale agli
interessi del mercato: si chiede a tutti gli insegnanti di formare un
sapere “utile” trasformabile in valore di mercato!
E
dimostra come questo progetto di trasformare ricerca e pensiero in
ancelle del mercato si realizzi attraverso due dispositivi combinati: il
taglio programmato della spesa pubblica per l’istruzione e una
legislazione tesa all’aziendalizzazione degli istituti di ricerca e di
alta formazione, oltreché della scuola.
Riduzione della spesa pubblica e aziendalizzazione sono dunque due facce della stessa medaglia.
La parola magica di questo moderno processo di asservimento del sapere
iniziato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è, appunto, l’autonomia.
Dopo aver analizzato il nobile significato con cui l’hanno intesa i
padri costituenti (l’autonomia, quella vera, è condizione di libertà in
quanto garantisce le istituzioni nella loro opera di promozione
culturale e di ricerca al riparo da condizionamenti e/o pressioni di
interessi extra culturali, politici o economici che siano) l’autore
dimostra come, oggi, tale significato sia stato letteralmente capovolto,
facendolo diventare sinonimo di “aziendalizzazione”: «Questa
speciale interpretazione dell’autonomia, insieme al taglio progressivo
dei fondi destinati alla ricerca e alla formazione, si sta risolvendo in
un sostanziale obbligo alla privatizzazione dell’intero sistema
formativo nazionale, con il risultato di trasformare la tanto declamata
autonomia finanziaria degli atenei in una trappola mortale attraverso la
quale assoggettare l’autonomia del sapere alla volontà delle burocrazie
ministeriali sempre più obbedienti alla logica spietata del mercato e
della concorrenza.» L’intero sistema di formazione culturale, dunque, è caduto nella “trappola mortale” dell’autonomia.
A
questo punto domando: c’è qualcuno in grado di citare un solo
provvedimento di un certo rilievo, concernente la scuola, che nel corso
di questi sedici anni non sia stato in linea con le finalità formulate
in quel lontano 1997?
C’è
qualcuno in grado di spiegare razionalmente per quale recondita ragione
un qualsiasi governo dovrebbe “investire di più” nella ex scuola
pubblica statale, mantenendo intatto un quadro giuridico-normativo
concepito per lo scopo opposto, cioè l’autofinanziamento dei singoli istituti con la possibilità di scaricare i costi sulle famiglie?
C’è
qualcuno in grado di spiegare per quale recondita ragione i governi
dovrebbero valorizzare la professione docente (in termini di
retribuzione, livello culturale e quindi di dignità professionale) dal
momento in cui, a muso duro, ai docenti è stato detto per ben sedici anni che il loro ruolo è di sviluppare competenze che saranno verificate da modelli standard di rilevazione funzionali al mercato del lavoro?
C’è
qualcuno in grado di spiegare razionalmente la compatibilità tra uno
solo degli obiettivi delle attuali proteste dei docenti e degli studenti
con il quadro normativo e le finalità previste dalla legge
sull’autonomia scolastica?
Il punto, allora, è proprio questo e su questo punto è giunto il momento di parlarci chiaro: tutte le sacrosante rivendicazioni provenienti dal mondo della scuola nelle sue varie componenti, o le inscriviamo in un’agenda che al primo posto esige l’abolizione della cosiddetta autonomia scolastica
allo scopo di mettere una pietra tombale sulla stagione della scuola
dell’autonomia, oppure, accettandone la logica e operando al suo
interno, qualsiasi rivendicazione che abbia un minimo di senso
culturale, sociale, formativo e democratico è destinato a rimanere
parola vana.
Non si può continuare ad agire con la logica della “vertenza”,
tipica della cultura sindacale del '900, quando la battaglia non
riguarda provvedimenti circoscritti e contingenti all’interno di un
quadro generale comunque condiviso dalle parti.
La battaglia, oggi, è impari: da un lato c’è un progetto di scuola
messo in atto nel corso di sedici anni, che ha modificato radicalmente
la natura della scuola, i suoi scopi, la sua organizzazione e che ha
coerentemente declassato la professione docente a livello di esecutori addestrati (l’umiliazione
delle prove preselettive del recente concorso cui sono stati sottoposti
i nostri colleghi dovrebbero suscitare un moto di sdegno in chi ha
ancora conservato un barlume di dignità professionale), dall’altro si
registrano reazioni episodiche, frammentate, o comunque proteste che non mettono mai seriamente in discussione la logica di quel progetto. E che perciò sono destinate a soccombere.
Una
battaglia per una scuola pubblica nell’accezione costituzionale del
termine non può essere condotta con questa paralizzante contraddizione
che ha caratterizzato le proteste sino a oggi. Mi spiego. Non c’è dubbio
che l’esito di una battaglia sociale su obiettivi sociali la si vince o
la si perde in base ai rapporti di forza. Detto questo, però, per
essere combattuta con qualche speranza di esito positivo, è necessario individuare il vero fronte su cui scontrarsi.
Mi spiego con un esempio. In Val di Susa
la popolazione ha intrapreso una battaglia contro il progetto della
TAV: con ogni probabilità perderà (perderemo) questa battaglia per
rapporti di forza asimmetrici. Lo scontro, però, avviene nella “trincea”
giusta, nei cantieri, creando difficoltà e problemi a quanti devono
devastare il territorio con ruspe e trivelle, e a livello politico, non
votando più per quanti sostengono quel progetto. Se invece, pur
mantenendo le medesime parole d’ordine contro la devastazione del
proprio territorio e la difesa dell’ambiente, il popolo NO-TAV
protestasse proclamando lo sciopero della briscola in tutti i bar della
valle, agevolando il passaggio di ruspe e trivelle e votando per quei
politici che sostengono quel progetto, la battaglia sarebbe persa in
partenza. È esattamente quello che da anni sta accadendo nella scuola.
Le ruspe e le trivelle che devastano il territorio della scuola
sono in opera da sedici anni, e, come abbiamo visto, si chiamano POF,
capitale umano, valutazione dei prodotti, competenze, “utenti”, INVALSI,
progetti, ottuso egoismo competitivo, personalizzazione dell'offerta
formativa, abolizione delle ore di compresenza, scomparsa dei programmi
nazionali della scuola primaria ecc... e queste sono le ruspe e le
trivelle contro cui dovrebbe essere indirizzata una lotta di lungo
respiro.
L’opposizione alla scuola-azienda rimane illusoria se non si traduce in un’individuazione teorica dei punti nevralgici che trasmettono nella scuola gli impulsi aziendalistici
così da attivare una mobilitazione pratica per reciderli. Ad oggi,
esiste in Italia una sola scuola che si sia rifiutata, in nome della
dignità culturale, di stendere il POF? Si obietta: ma è obbligatorio! E
allora si scriva nome, indirizzo e numero di telefono della scuola e
l’elenco delle discipline che vi s’insegnano! Punto.
Riflettiamo sull’ultima grande fiammata di proteste
tra ottobre e novembre che, in occasione del minacciato aumento
dell’orario di lavoro di ben sei ore, ha dato vita a cortei, comitati,
assemblee autoconvocate in tutte le città d’Italia, in nome della difesa
della dignità della professione docente e della scuola pubblica
statale. Questa fiammata, non sorretta da un progetto strategico globale alternativo a quello dell’autonomia, si è ovviamente ben presto esaurita.
Anzi,
al rientro dalle vacanze di Natale, quelle stesse scuole che avevano
stilato accesi documenti di protesta, bloccato tutte le cosiddette
attività aggiuntive, dimissionato i coordinatori di classe ecc... (che è
l’equivalente dello sciopero della briscola in Val di Susa) hanno poi
provveduto a coprire di manifesti i muri della città (cito per
esperienza e visione diretta) per guadagnare nuovi iscritti, producendo
anche patetici spot pubblicitari da inserire nel sito della scuola. E
sono già iniziate le grandi manovre per aggiornare i POF. Le ruspe e le
trivelle che hanno distrutto la scuola sono tenute in efficienza dalle
scuole stesse. Traduzione: il modello di scuola contro il quale si dice di combattere è stato in realtà interiorizzato. La vera trincea, dove si dovrebbe combattere la vera battaglia, è deserta.
Stupisce
che a distanza di così tanti anni sia ancora diffuso tra i docenti
l’atteggiamento di interpretare l’autonomia con i colori delle proprie
intenzioni soggettive, quindi vivendola come una sorta di maggiore
libertà nel prendere iniziative o progettare eventi non proponibili
nella “scuola tradizionale”. Questa convinzione di potersi ritagliare
uno spazio proprio, libero, astraendo dal contesto oggettivo entro cui
l’azione pratica si svolge, è davvero un’illusione in cui si vuole
credere.
Ma
il cerchio ormai si sta chiudendo: la selezione dei docenti attraverso
prove standardizzate che si ispirano a un concetto di meritocrazia degno
di una comunità di scimpanzé (vince chi è più addestrato e chi sa
addestrare meglio), i residui finanziamenti pubblici destinati alle
scuole “migliori” cioè quelle in cui si addestra meglio a “imparare a
imparare” (che cosa?), finiranno per far evaporare anche queste ultime
illusioni. Sempre che non si decida una buona volta, tutti insieme, di
far chiudere questa storia penosa dell’autonomia, impegnandosi nel
contempo per l’elaborazione di un progetto culturale di scuola che
nel nuovo contesto storico consenta alle giovani generazioni di
partecipare con responsabilità, senso critico e memoria storica alla
vita collettiva. Questo deve fare la scuola.
NOTA
L’aziendalizzazione
dei sistemi formativi è un fenomeno storico che non è possibile
trattare nello spazio di un articolo. Esiste però, ormai, una vasta
letteratura che ha affrontato l’argomento e che ha analizzato il
significato storico-culturale del processo attualmente in corso. Qui ci
limitiamo a segnalare soltanto alcuni materiali che crediamo possano
essere utili per meglio contestualizzare la vicenda dell’autonomia
scolastica.
Segnaliamo
in particolare questa pagina di un sito internet (curato da Roberto
Renzetti) che rappresenta una miniera quasi inesauribile di analisi e
ricostruzioni storiche del processo di aziendalizzazione della scuola:
Utile può risultare inoltre la lettura del dossier del laboratorio politico culturale Alternativa: “Alternativa e scuola. Il coraggio di andare controcorrente”,
in particolare alle pagine 18/32 di questo dossier, segnaliamo per lo
spessore storico-culturale dell’analisi l’articolo di Massimo
Bontempelli “Storia di uno sfascio epocale”.
In
effetti, allo stato attuale delle cose, non esiste alcuna forza
politica che abbia nel proprio programma l’abolizione dell’autonomia
scolastica! (E questo dovrebbe farci riflettere non poco...). A quel che
ci risulta, solo Alternativa ha avanzato una simile proposta di vera rottura con il quadro presente.
Nessun commento:
Posta un commento