da: www.unionedeglistudenti.net
A più di dieci 
anni dall’avvio del processo di Bologna, che ha riordinato la formazione
 universitaria, le istituzioni europee, in una situazione...
  di recessione
 provocata dalla crisi economica con  ripercussioni in tutti settori in 
termini di occupazione e diffusa contrazione, si è rafforzata sempre più
 la necessità del libero mercato di controllare i processi di creazione e
 trasmissione del sapere. Le istituzioni europee, portavoci delle 
istanze neoliberiste, hanno ben chiara la strategia su come concludere 
il  processo di assoggettamento a trecentosessanta gradi dell’istruzione
 e della formazione ai fini della produzione.
L’arma del
 ricatto utilizzata astutamente nella strategia “Ripensare l’Educazione”
 presentata dalla Commissione europea  è quella della disoccupazione 
giovanile. Tutti i giovani europei hanno sperimentato sulla 
propria pelle come la crisi del mercato del lavoro abbia comportato un 
innalzamento vertiginoso del tasso della disoccupazione. Tale tasso, 
soprattutto nell’area dei paesi PIIGS, è infatti molto drammatico.
È unanimemente comprovato che i giovani inoccupati o NEET hanno un fortissimo costo sociale,
 che si ripercuote negativamente sull’economia comunitaria e nazionale e
 funge anche da ostacolo alla ripresa e alla crescita economica. Sulla 
base di questo ragionamento, l’Unione europea, che si pone come chiaro 
obiettivo la crescita economica e l’aumento della produttività – sebbene
 celi questi obiettivi dietro l’aggettivo sostenibile – si serve 
astutamente del problema della disoccupazione giovanile e dei costi 
gravosi che da essa derivano, per appropriarsi definitivamente 
dell’istruzione, modellandola in modo tale da ottenerne il massimo dei 
benefici.
La tesi di “Ripensare l’Educazione” e delle politiche europee in materia d’istruzione punta tutto sul ruolo fondamentale delle skills
 (in italiano qualifiche, capacità, competenze, abilità) e su come esse 
diventino gli elementi unitari e compositivi dell’istruzione. Cosi come 
un fotografia digitalizzata si esprime in pixel, allo stesso modo l’istruzione e la formazione vengono definite in skills.
 Così avviene che avere un titolo di studio, come un diploma di 
maturità, non rappresenti più il termine di un percorso di formazione e 
di appropriazione di sapere e saper fare continuo, bensì un complesso di
 competenze discreto, enumerabile, quantificabile, scomponibile e 
soprattutto mercificabile.
Avviene inoltre 
che la disoccupazione non venga vista come distribuzione iniqua del 
lavoro, ma come mancata corrispondenza fra le skills di chi termina percorsi di formazione e le skills richieste dal mondo del lavoro e dalle imprese. Lo skills mismatch
 (disparità di qualifiche), dunque, diventa allora  il problema 
principale da risolvere  secondo la logica delle politiche europee 
dell’istruzione per le  quali  i sistemi formativi  dovrebbero tutti 
essere ripensati sulla base del conseguimento di tali skills.
“L’istruzione e
 la formazione possono contribuire alla crescita e alla creazione di 
posti di lavoro solo se l’apprendimento è incentrato sulle conoscenze, 
sulle abilità e sulle competenze che gli studenti devono acquisire 
(risultati dell’apprendimento) attraverso il processo di apprendimento 
invece che sul completamento di un determinato ciclo o sul tempo 
trascorso a scuola.” – da Ripensare l’Educazione
La certificazione delle skills,
 intesa come validità nel curriculum vitae ed il loro riconoscimento, 
inteso come spendibilità di queste in maniera flessibile nel mondo del 
lavoro, costituisce per la Commissione europea la vera posta in gioco. 
Le skills riconosciute dall’Unione europea hanno inoltre una struttura gerarchica resa possibile dalla loro quantizzazione: si comincia dalle skills
 di base, come le abilità di lettura e scrittura, l’alfabetizzazione 
matematica e scientifica, competenze spesso oggetto di valutazione dei 
test OCSE-INVALSI; le skills STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica); le skills
 professionali, relative all’istruzione e la formazione professionale, 
le quali devono essere sempre più reattive al mercato del lavoro; le skills IT (abilità informatiche) e le conoscenze dell’inglese e delle altre lingue straniere; le skills
 imprenditoriali, o anche dette trasversali, come la capacità di 
risolvere problemi, lo spirito d’iniziativa e persino il pensiero 
critico.
Il risultato è una
 topografia preoccupante di tutto lo scibile umano, che tenta di mettere
 a valore ogni singola conoscenza o competenza. Tale processo di 
appropriazione indebita della conoscenza avviene per mezzo di tante 
misure chiave annunciate dalla Commissione. Esse sono dirette non solo 
alla “catalogazione delle skills” degli studenti, ma anche 
quelle degli stessi insegnanti, i quali devono modellare e aggiornare i 
loro metodi di insegnamento per renderli skills-oriented. Per 
questo motivo, secondo i parametri europei, sono necessari nuovi e forti
 partenariati delle scuole con le imprese, che non avverranno solo più 
per i periodi di alternanza scuola-lavoro nell’istruzione professionale.
 Addirittura fin dalla scuola primaria, si legge, “è necessario che 
tutti gli studenti possano fare esperienza imprenditoriale”.
La 
retorica utilizzata dall’Unione europea e dai suoi tecnici altamente 
specializzati sottende un vero e proprio ricatto per l’intero mondo 
della formazione. Con la trasposizione dei saperi in skills si 
colpevolizzano di fatto i giovani che, invece di essere considerati come
 vittime della crisi, diventano il problema da risolvere. Non 
si mettono in discussione i modelli di produzione, la finanziarizzazione
 dell’economia o tutte le altre speculazioni operate dall’alta finanza, 
bensì si attacca l’istruzione e si imputa la colpa a studenti ed 
insegnanti di non aver acquisito o impartito skills a sufficienza.
Come può un 
giovane diventare esperto e competente se non riesce a sviluppare le 
proprie competenze lavorando? Come si fa a pensare che la scuola e 
l’università possano far sviluppare delle capacità che per secoli sono 
state fornite dalla diretta esperienza lavorativa? La risposta dubbia a 
questi quesiti lascia spazio ad una certezza: se non ci si accorge 
dell’abile tiro mancino messo in campo dall’Unione europea nei confronti
 dell’istruzione si rischierà di non riuscire a salvare quell’ultimo 
spazio libero che è la scuola dagli artigli del libero mercato. Gli 
studenti e le loro famiglie spenderanno fortune in master, corsi di 
specializzazione e di certificazioni sperando invano di diventare più 
competitivi nel mercato del lavoro, finendo per impoverirsi sempre più 
ed arricchire invece chi si è già da tempo arricchito.
di Daniele Dimitri, membro del board dell’Obessu, rete dei sindacati studenteschi europei. Tratto da ilcorsaro.info
 
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