Noi sottoscritti firmatari,
docenti del Liceo Classico e Linguistico “E. Piga” di Villacidro e dell'Istituto Magistrale “E.
Lussu” di S. Gavino, esprimiamo
profonda indignazione alla luce dei recenti tentativi ministeriali, e del Governo tutto, di infangare
e sminuire il lavoro della categoria docente. Da anni ormai gli ambienti politici, i mass media
e, di riflesso, l’opinione pubblica sono impegnati in una crociata volta alla
demolizione della funzione fondamentale dell’insegnante. Ogni compagine governativa non appena insediata
ha cercato di mostrare il suo impegno riformatore stravolgendo quella struttura e quelle regole
che dovrebbero costituire il fondamento stesso di un settore vitale per la società quale è l’istruzione.
Di
umiliazioni il corpo docente ne ha sicuramente ...
subite tante, indubbiamente
molte a partire dal 1997,
quando una Commissione di “saggi”, di cui nessun docente non universitario in
attività faceva
parte, decise contenuti e struttura di una riforma della scuola, pubblicizzata
come epocale, che
Luigi Berlinguer e il governo di cui faceva parte imposero senza consultare i
veri destinatari.
Da
quel momento a oggi si sono susseguite quattro riforme, per cui all’Italia si
potrebbero rivolgere senza
dubbio i versi del divino poeta “Atene e Lacedemona, che fenno / l’antiche
leggi e furon sì civili, / fecero al viver bene un picciol cenno / verso di te, che fai
tanto sottili / provedimenti, ch ’a mezzo
novembre / non giugne quel che tu d’ottobre fili”. Tutte queste riforme nella sostanza sono state dettate a un ministero senza portafoglio
dai plenipotenziari dell’economia, ben poco interessati allo sviluppo
dei futuri cittadini, dichiarato nei documenti programmatici formulati e
sottoscritti a livello nazionale ed europeo. Essi si sono dimostrati in realtà
e sopratutto molto preoccupati di rimpinguare
le già piene casse del mondo finanziario e bancario, in nome di buchi di
bilancio, non creati dai comuni cittadini, e di pressioni sul debito
pubblico condite da esterofilia linguistica con altisonanti spread, spending review, etc., che accrescerebbero la
portata dei problemi e delle riforme.
Mai tuttavia
nessuno, neppure il più ostile dei ministri, era giunto a concepire possibile
un così forte e gratuito attacco alle stesse
norme costituzionali e contrattuali, poste a garanzia dell’esistenza di una
nazione.
Infatti, la proposta
emersa dall'art. 3 della “legge di stabilità”:
al
comma 42 prevedeva un'estensione
unilaterale dell'orario di lavoro prestato dai docenti della scuola secondaria di secondo grado
dalle attuali 18 ore di cattedra a 24 a parità di salario (una proposta che non prende in considerazione
adeguatamente la validità e le caratteristiche dei processi didattici, nega valore al lavoro
intellettuale dell'insegnante, considerando gli adempimenti individuali dovuti, e ribaditi dalla stessa disciplina
contrattuale, come una pura appendice di scarsa portata del lavoro
quotidianamente svolto in classe). Inoltre tale norma colpirebbe pesantemente
le fasce più deboli degli insegnanti che,
non coperti da un contratto a tempo indeterminato, verranno rovinosamente espulsi dal mondo del lavoro, dopo
aver svolto per anni la funzione di fedeli servitori dello Stato ed
essere stati utilizzati per quei compiti e con quelle competenze che ora
improvvisamente si dice dovranno dimostrare attraverso un concorso, il cui
valore e i cui costi andrebbero attentamente
soppesati. Tali azioni, oltre a ledere nel profondo la dignità professionale e umana dei lavoratori della Scuola, sminuendo la
portata del loro lavoro, sottintendendo che allo stato attuale i loro
oneri siano inferiori a quelli di ogni altro lavoratore della Repubblica,
intacca pesantemente le prerogative contrattuali (forse il ministro si ispira
ai nuovi modelli di relazione sindacale importati dall'amministratore delegato
della FIAT abituato a formule diffuse nel Nord America?), stabilendo che l'attuale contratto di lavoro possa essere
rescisso unilateralmente dalla parte datoriale e contestualmente
riscritto operando una estensione della riserva di legge. Questa strategia
riproduce e addirittura supera quella adottata dal ministro Brunetta nel 2009
con il D. Lgs. 150, che di fatto ha riformulato integralmente il D. Lgs
165/2001 e limitato profondamente le
prerogative
sindacali e con queste i diritti dei lavoratori. Eppure l'art. 39 della
Costituzione recita ancora che i contratti
collettivi vincolano “tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
contratto si riferisce”, dando forte sostanza giuridica e intangibilità
agli stessi contratti;
al comma 43 contemplava
l’estensione dei giorni di ferie a 45 (13 in più per il personale con più di tre anni di ruolo e non 15 come affermato dal
Ministero!), quale graziosa concessione del Consiglio dei Ministri a fronte dell’aumento di carico
settimanale, il tutto ritoccando però al ribasso la disciplina contrattuale, poiché il personale
docente “fruisce delle ferie nei giorni di sospensione delle lezioni
definiti dai calendari scolastici regionali ad esclusione di quelli destinati
agli scrutini, agli esami di Stato e alle attività valutative. Durante la
rimanente parte dell'anno la fruizione delle ferie
è consentita per un periodo non superiore a sei giornate lavorative
subordinatamente alla possibilità di
sostituire il personale che se ne avvale senza che vengano a determinarsi oneri
aggiuntivi per le finanze pubbliche”,
in sostanza abolendo le deroghe previste dall’art. 15 c. 2 del CCNL 2006-2009 e obbligando sempre e comunque i
docenti a sostituzioni a costo zero per lo Stato (ma le ferie sono a costo zero per il datore di lavoro?... comprendiamo
bene che le varie compagini governative
e i mass-media a loro strettamente legati dopo aver informato in maniera
erronea l’opinione pubblica, la inducono a continuare a credere alla
favola dei tre mesi di ferie, perché i docenti ovviamente lavorerebbero solo in
aula svolgendo la lezione frontale con i ragazzi!);
al
comma 45, utilizzando peraltro lo strumento della riserva di legge
ampiamente fruita dal ministro Brunetta
per ledere i diritti contrattuali previgenti, negava il riconoscimento della
disciplina contrattuale a prerogative che neppure il D. Lgs. 150/09 aveva osato
intaccare, dal momento che quest'ultimo, ai
sensi dell'articolo 45 del D. Lgs. 165/01, continuava a demandare la
definizione del trattamento economico fondamentale e accessorio ai
contratti collettivi.
Noi sottoscritti
siamo, inoltre, fortemente indignati per l’uso non rispondente a verità e
strumentale che i vertici del Ministero e i
mass-media fanno dei dati relativi all’impegno medio dei docenti italiani
in rapporto ai colleghi europei.
L’adesione a protocolli
d’intesa europei e a programmi condivisi ha portato alla creazione di
osservatori internazionali cui si affiancano quelli ormai costantemente
presenti nell’immaginario collettivo, quali
l’OCED. Le pubblicazioni di tali enti, in un mondo globalizzato, fortemente
voluto dagli stessi potentati che oggi
chiedono immani sacrifici alla popolazione, prostrata a causa dei danni da essi provocati, informano e permettono a
tutti cittadini di usufruire di un capitale di dati in grado di
smascherare i falsi pretesti con i quali i “tecnici” coprono le loro azioni.
Così,
dai documenti della rete informativa europea Euridyce (cfr. la
recente pubblicazione Teachers' and
School Heads' Salaries and Allowances in Europe 2012) e OCSE scopriamo che in Italia il dato di servizio in
aula dei docenti delle scuole secondarie di secondo grado è maggiore di quello
mediamente in vigore in Europa. A tali impegni si sommano gli quelli esterni,
da altri paesi europei esplicitati e
quantificati (le cosiddette attività funzionali all’insegnamento previste
dall’art. 29 del CCNL 2006-2009) e
che l’Italia nei fatti non comunica né all'opinione pubblica interna né agli
organismi internazionali, tantomeno ai diretti interessati. Una precisa
definizione di tali tempi, infatti, sgombrerebbe definitivamente il campo da
ogni tentativo più o meno voluto di travisare la realtà lavorativa degli
insegnanti.
In sostanza se l’impegno in aula è pari a una media di
17,6 ore in Europa (dato valido se si prendono
in considerazione non solo i paesi dell'Unione europea ma tutti i 34 che
compongono il nostro continente. Se, infatti, considerassimo i soli paesi
dell'Unione emergerebbe ancor di più il trattamento non certo privilegiato dei
docenti italiani), i principali paesi industrializzati presentano situazioni addirittura più favorevoli per i
docenti, o quantomeno simili a quelle dei pari grado italiani (non dal
punto di vista retributivo, che risulta decisamente migliore rispetto al dato
italiano). Infatti, in Francia si arriva a
15 ore settimanali per l’aggregé e in Germania, se il ministro e i suoi tecnici
avessero avuto la pazienza di utilizzare il proprio tempo ben pagato per
leggere i dati, si registrano da 22,2 a 27
unità orarie di 45 minuti ciascuna, vale a dire da 16,575 a 20,25 ore. Altri paesi utilizzano unità orarie di 45’, la Svezia
addirittura di 40’, aspetto che anche uno sprovveduto
sarebbe in grado di
considerare in rapporto al nostro piano di lavoro che, invece, si basa su unità
lavorative di 60 minuti).
Inoltre,
va sottolineato che gran parte delle nazioni europee ha volutamente e
giustamente quantificato il lavoro
complessivo degli insegnanti al di fuori dell'aula, in quanto esso rappresenta parte integrante dell'attività e non ne dovrebbe
certo essere omesso il computo. Scopriamo allora (cfr The Learning Environment and Organisation of Schools, in Education
at a Glance, OECD 2011, pp.
422-429) che la percentuale di attività frontale prevista nel 2009 in Germania
e Olanda si avvicinava al 40% del
carico lavorativo e che, addirittura, paesi come la Norvegia, la Danimarca, la Polonia, l'Ungheria e altri della compagine
europea prevedevano a tale data carichi inferiori a simile percentuale. In alcuni paesi non viene specificato
in modo analitico il tempo speso in attività non in aula e le modalità del suo
utilizzo, o, al più in alcuni casi, ciò avviene parzialmente, per ovvi motivi legati alla peculiarità dell'attività lavorativa
dell'insegnamento, che, evidentemente, i nostri governanti e mass-media
hanno considerato con molta superficialità. Tuttavia, le ore frontali medie previste nella zona EU21 assommano a 628 annue
nelle scuole secondarie di secondo grado e loro equivalenti, a fronte di
619 previste in Italia (ma alcuni paesi contribuiscono nettamente a spingere verso l'alto la media, dal momento che stati come
la Francia presentano dati assolutamente coerenti con quelli italiani).
In Austria, a fronte
di 589 ore annuali di servizio in aula, il lavoro complessivo dei docenti viene
quantificato in 40 ore settimanali, nelle
quali rientrano la correzione compiti, la predisposizione delle lezioni, gli impegni burocratici, le
attività di esame. Tali definizioni sembrano una trascrizione fedele del
nostro contratto collettivo nazionale di lavoro all'art. 29, ma la valutazione
oggettiva dell'impegno dei propri docenti da parte degli omologhi ministri
austriaci è ben diversa di quella supposta, a più riprese, dai ministri
Gelmini, Fioroni, Profumo e relative commissioni che si sono avvicendati negli ultimi anni, senza parlare dei
precedenti non certo inferiori nel disprezzo della nostra professionalità. Si potrebbe approfondire
ancora all'infinito la serie di dati che evidenziano le numerose inesattezze propinate all'opinione
pubblica dai “tecnici” del ministero, che sembra ignorino e non si preoccupino di conoscere le molteplici responsabilità
della professione docente.
Proviamo dunque noi,
professionisti del settore, a quantificare ciò che il ministero non intende
esplicitare. Secondo il contratto esiste già un'ora in più d'impegno
settimanale rappresentata dalle attività
collegiali obbligatorie, alla quale deve essere sommata un'altra ora di
attività nei Consigli di classe (per molti docenti si tratta anche di un
monte ore superiore a questo, perché vanno sempre scorporate in quanto dovute le ore di partecipazione agli scrutini
intermedi e finali). Già così i docenti delle scuole secondarie di secondo
grado sarebbero impegnati contrattualmente per un orario di 20 ore settimanali. Qualcuno obietta, in
malafede evidentemente, che tutti gli altri lavoratori svolgono circa
45-46 settimane lavorative all'anno e che quindi le “sole” 33 settimane di
lavoro che si presume vengano svolte dagli insegnanti siano inferiori al carico
lavorativo medio in Italia. Chi esprime tale
parere dimentica chiaramente che i docenti proseguono l’attività lavorativa programmata anche quando gli alunni non frequentano
le lezioni (esami di maturità, attività collegiali dal 1 settembre, scrutini e attività collegiali dopo la fine
delle attività didattiche). A meno che
non si voglia credere che i docenti, nel momento in cui alunni e genitori non
sono presenti, siano automaticamente in vacanza o disimpegnati, come
quando il bambino, coprendosi gli occhi, non vede il mondo circostante, ragion
per cui, tramite un falso sillogismo, il mondo circostante dovrebbe non poterlo
vedere.
È del tutto priva di
fondamento, quindi, l'affermazione secondo la quale il docente italiano
godrebbe di tre mesi di ferie, infatti il
nostro ordinamento prevede non meno di 200 giorni di lezione (per 619 ore a docente + circa 80 ore collegiali, per un
totale di 699 ore di presenza nelle scuole secondarie di secondo grado,
che ci si conceda di arrotondare a 700) affinché l'anno scolastico sia valido.
Situazioni consimili riguardano gran parte dei paesi europei, con la sola
variante che in molti di essi i periodi di
riposo sono distribuiti diversamente nel corso dell’anno scolastico. Pertanto,
i saldi sono evidentemente uguali alla situazione italiana. A tale monte
ore deve poi sommarsi la quota da
dedicare alla correzione delle verifiche scritte e
dei test/questionari, che sempre più spesso vengono utilizzati per far fronte
alla atavica carenza di tempo da dedicare alla attività didattica primaria. Appurato che ai nostri “tecnici”
piacciono i numeri, ragion per cui rifuggono da un’analisi qualitativa dei servizi, se,
giusto per quantificare, prendessimo in considerazione tre compiti per classe
su una media di tre classi per docente e tre questionari a risposta aperta e /
o prove similari per classe a
quadrimestre giungeremmo tranquillamente a 36 gruppi di elaborati per anno a
docente (i saldi aritmetici cambierebbero
poco per materie che non prevedano lo scritto e che contemplino un numero inferiore di ore a settimana per
classe, poiché in tal caso aumenterebbero di conseguenza le classi e con esse i questionari/test, etc.) per
un numero di alunni medio per classe superiore ai venti e in determinati casi, grazie alla
costituzione delle classi pollaio, di gran lunga superiore alle 25
unità. Si conceda pure una media di alunni per classe di 23, sottostimando
decisamente il dato generale, giusto per regalare qualche ora al ministero e
per non affermare che siamo attaccati alle minuzie,
valutando per correzione, valutazione e stesura del giudizio non meno di 20’
medi a compito, otterremmo circa 275
ore, cui aggiungere il tempo necessario alla predisposizione delle prove. Saremmo ancora al di sotto della realtà se
giungessimo a pensare a 300 ore di lavoro solo per questa attività. Tale somma
ci porterebbe a 1005 ore, ripetiamo, con somme ben inferiori alla realtà fattuale.
Aggiungendo a questo dato le attività funzionali cui dobbiamo adempiere in vari
momenti dell’anno (programmazione individuale
e di classe, le cui strutture vengono continuamente modificate in rapporto alle esigenze della classe e
alle continue innovazioni normative che si susseguono nel corso degli
anni e spesso anche durante il medesimo anno scolastico, valutazione e medie, relazioni finali, programmi, etc.),
tralasciando, peraltro, le infinite scartoffie burocratiche che il ministero di anno in anno ci impone, in
barba ai processi di semplificazione che pomposamente afferma di
promuovere, potremmo quantificare tale servizio in non meno di 50 ore annue, anche quando parte del materiale sia già
stato prodotto in forma digitale per gli anni precedenti. Giungeremmo
dunque solo con questi elementi a 1055 ore.
Incrementiamo
questo dato con non meno di 100 di ore annue (ma il dato anche in questo caso è
necessariamente da
rivedere al rialzo) utilizzate da molti docenti per correzione di
esercitazioni, tesine d’esame, ricerche e
altre attività similari. Inoltre, i docenti devono, come qualunque
professionista, aggiornarsi e preparare le lezioni, tanto più in un periodo in
cui viene loro richiesta anche la padronanza degli strumenti multimediali.
Un’ora o un’ora e mezza al giorno di media sarebbe certamente sottostimata, ma
giusto per essere magnanimi concediamo questo dato, tralasciando volutamente la parte relativa alla formazione personale che
ciascun docente continua a perseguire
(durante l’anno e ancor più nei mesi estivi), riversandola poi nel suo
quotidiano lavoro. In questo caso si
potrebbe ottenere la cifra di 200-300 ore annue. Eccoci dunque giunti a
1355-1455 ore.
Sommiamo
a questo computo gli esami di maturità e similia che vedono coinvolti numerosi
docenti nel corso
della loro carriera lavorativa. Considerando un dato medio di una singola
classe con circa venti alunni, vista la
nota alternanza annuale tra materie assegnate a membri esterni e altre
afferenti a membri interni e l’esistenza di docenti che in alcuni anni non
svolgono tale attività, giungeremmo a 35 ore circa di attività collegiali, 7
ore medie di vigilanza per gli scritti, 7 ore di correzione e valutazione degli
stessi, qualora si operi per sottocommissioni, 20 ore dedicate alle prove
orali, per un totale di circa 69-70 ore in
non meno di venti giorni di lavoro. Gli impegni a scuola, inoltre, vengono sovraccaricati da un numero di ore
“buche” medio pari a 2 settimanali per non meno di 66 ore annuali. Non è
superfluo notare a tale proposito che le 18 ore lavorative in classe non
possono prevedere pause caffè o interruzioni, in quanto la responsabilità di
natura contrattuale ed extracontrattuale in
capo al docente vieta tali possibili momenti “morti”, giustamente codificati in
tante realtà lavorative. Infatti, l’estensione di una simile pratica al corpo
docente ingenererebbe a carico dello stesso
la fattispecie della culpa in vigilando con conseguenti pesanti riflessi
giuridici.
Unendo i due dati giungiamo a 135 ore ulteriori.
Dunque potremmo tranquillamente valutare un totale
pari a 1490-1590 ore annuali.
La
maggior parte dei docenti viene coinvolta in attività funzionali ulteriori, la
maggior parte pagata forfettariamente
(vale a dire con poche ore realmente retribuite e altre svolte come atto di volontariato e a titolo sostanzialmente
gratuito), quali orientamento, accoglienza, orario, rapporti con le famiglie, commissioni,
sito web, etc. Tali attività sono ben poco quantificabili e costituiscono un immenso sommerso cui lo Stato attinge a piene mani
per far funzionare le istituzioni scolastiche, in nome di una tanto millantata
quanto ben poco reale autonomia.
Abbiamo volutamente
omesso i tempi destinati a ulteriori colloqui individuali con le famiglie,
comunicazioni online con alunni per consigli, consulenze e quant’altro possa
servire al raggiungimento degli obiettivi
programmati, viaggi d’istruzione e visite guidate (spesso spacciate all’opinione
pubblica come viaggi di piacere gratuiti per il corpo insegnante), etc., forse
per uno spirito di missione che, nonostante
i ripetuti tentativi di demolizione e le umiliazioni subite ad opera di
fattori esterni, continua ad aleggiare nella nostra professione.
Ora
se la media dei paesi EU21 prevede 1580 ore annuali di attività (ma da tale
computo sono escluse Italia, Francia,
Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Grecia, Belgio, perché non comunicano direttamente la reale entità), possiamo osservare
che in base a 1490-1590 ore annuali unite a tutte le attività non
quantificabili, e nonostante un calcolo fortemente volto al ribasso, la media
annuale di ore di impegno dei docenti di
scuola secondaria di secondo grado è perfettamente in linea con i dati europei,
se non maggiore, anche laddove scorporassimo le ore “buche”.
Siamo
cioè arrivati a una conclusione che in Austria dei governanti più avveduti dei
nostri avevano raggiunto senza grandi
problemi di calcolo.
Non
sarebbe inutile notare che dividendo il dato medio europeo e di conseguenza
quello italiano per 45-46 settimane
lavorative (pari all’impegno medio di un lavoratore in numerosi comparti),
otterremmo circa 35 ore settimanali. In sostanza se pure, come da più parti si
afferma, fosse stato rispondente al vero che i docenti abbiano tre mesi di
ferie effettive, emergerebbe che nel corso degli altri nove mesi il carico
lavorativo sarebbe addirittura superiore a molte categorie. D’altronde in pochi
all’interno di queste sarebbero disposti a sacrificare domeniche e giorni
liberi, vacanze di Pasqua e Natale senza adeguate compensazioni, per svolgere
attività che il docente spesso si trova per forza di cose a dover concentrare
proprio in questi periodi al fine di espletare al meglio il suo compito.
Ma arriviamo a una
delle note dolenti, il salario.
A fronte di un
carico lavorativo quanto meno equivalente a quello sopportato dai nostri colleghi
d’oltralpe ci aspetteremmo, in virtù
dell’appartenenza all’Unione europea, sempre chiamata in causa quando si tratta di prepararci a subire le
più ignominiose riforme economiche, un trattamento salariale simile a quello presente in gran parte
dei paesi dell’Unione (è fin troppo facile per il MIUR cercare di
utilizzare dati di nazioni come la Romania, la Bulgaria o l’Ungheria che, a
fronte di situazioni economiche disastrose, difficilmente possono garantire
salari commensurabili con quelli europei, in presenza di un reddito medio pro
capite bassissimo). Ma di una tale equiparazione alla tanto evocata Europa, non
troviamo neppure l’ombra. I salari dei nostri colleghi tedeschi, danesi,
svedesi, lussemburghesi, olandesi non sono neanche lontanamente paragonabili ai
nostri.
Se il lordo del
salario in ingresso per un docente italiano è pari a 24.846 € annui, in
Germania arriviamo a 48.484 €, in Danimarca
a 41.457 €, in Austria a 32.115 €, per non parlare dell'idilliaca situazione
lussemburghese (75.997 €). Qualora si confrontino i salari in uscita, nel
nostro paese previsti al raggiungimento dei
35 anni di anzianità (quindi attualmente non raggiungibili in base al blocco dei salari e degli scatti stipendiali
previsto dagli ultimi dicasteri delle Finanze, della Funzione pubblica e dell'Istruzione), a fronte dei
nostri 38.902 € annui lordi, i colleghi tedeschi a fine carriera raggiungono quota 66.853, i danesi
53.504, gli austriaci 67.581, i finlandesi 47.270, gli spagnoli 46.591,
per non parlare dei soliti lussemburghesi (132.101 €).
Volendo
analizzare un caso concreto si può tranquillamente prendere sott'occhio quello
francese. Tra i colleghi transalpini il salario netto in ingresso è pari a
1.890 €, che dopo due anni di carriera passa 2.032 €, dopo 10 oscilla tra i 2.292 e i 2.384 €
(la progressione prevede scatti d’anzianità per tutti e ritmi d'avanzamento in
base al merito individuale, il minimo corrisponde a quanto percepito
per
la semplice anzianità da un docente in classe normale), per arrivare a un'oscillazione tra 3.173 è 3.722 € a fine carriera, raggiunta con 20-30 anni di
servizio. La cifra viene calcolata escludendo l'indennità
di residenza e altri supplementi. A questo salario vanno ad aggiungersi
emolumenti mensili legati alle zone disagiate in cui si opera,
all'orientamento degli alunni, all'attività di professeur principal.
Ogni
commento a questo punto risulta superfluo; è quanto meno avvilente osservare la
diversa considerazione che ricevono i nostri
colleghi francesi, legata a un progetto di costruzione dello Stato e di senso
dello Stato evidentemente diversa dalla visione mostrata dalla classe politica italiana
attuale.
D’altronde poco ci
si può aspettare da chi in maniera schizofrenica prima illude con un concorso truffaldino i docenti precari in attesa di poter
essere assunti a tempo indeterminato (dopo aver svolto un percorso formativo che li aveva abilitati
all’insegnamento) e di fruire con un minimo di sicurezza almeno di quei
24.846 € lordi, privi di ulteriori incrementi, stante l’attuale blocco della progressione di carriera, e poi propone una
modifica tanto radicale al carico orario dei docenti di ruolo.
Ancor
di meno si può apprezzare il pensiero prospettico di “tecnici” che proseguono
nell’ormai infinito taglio dei fondi destinati alla scuola pubblica, visto che
la spesa ad alunno di scuola secondaria di secondo grado nel 2009 era già al di sotto della media OCSE
pari a 9.755 € e alla media EU21 di
9.666, raggiungendo appena i 9.076 €, contro i 12.809 dei francesi, gli 11.287
dei tedeschi, gli 11.880 degli olandesi, gli 11.265 degli spagnoli.
Ora
se moltiplichiamo per 223.802 insegnanti in servizio a t. i. e a t. d. presso
le scuole secondarie di
secondo grado nell’a. s. 2009/10 (Relazione del MIUR alla Camera dei Deputati,
2010) lo stipendio
medio dichiarato per il 2011/12 alla rete Eurydice (non essendo presenti
aumenti salariali il dato può essere
abbastanza vicino al dato reale di soli due anni prima, vista la
razionalizzazione compensata in parte dall’uscita dal lavoro di personale con
retribuzioni medie più elevate), pari a 30.431
€, otteniamo la cifra per retribuzione dei docenti pari a 6.810.518.662 €. Tale
cifra divisa per 2.548.836 studenti, porta a 2.672 € il costo medio per
studente rappresentato da salari per il corpo docente. Da 2.672 a 9.076 € il
passo è molto lungo, pertanto sarebbe interessante capire, per pura curiosità, dove finiscano (al di là delle
ulteriori retribuzioni per A.T.A. e dirigenti) gli altri 6.404 € ad alunno
dichiarati, stante la condizione terribile dell’edilizia scolastica e l’atavica
assenza di materiali e infrastrutture all’interno delle istituzioni
scolastiche.
Peraltro
proprio negli anni 2008-2010 l’allora ministra sciorinava dati di presunti costi
dell’istruzione
superiori alle medie europee, informando l’opinione pubblica in maniera
distorta dietro dettato dei
plenipotenziari dell’economia, sempre alla ricerca di denaro per coprire un
debito pubblico galoppante, alla cui
riduzione ora gli stessi docenti dovrebbero essere chiamati a contribuire insieme alle altre categorie solite
destinatarie delle azioni di “risanamento” delle finanze pubbliche.
Non
è inutile peraltro ricordare che l’Italia risulta fanalino di coda anche
nell’investimento per ricerca
e sviluppo in rapporto al PIL, attestandosi a poco più della metà della media
europea (1,26% sul
PIL nel 2010 a fronte del 2,26% francese, del 2,82% tedesco), con obiettivi
Europa 2020, stabiliti nell’aprile del
2011, veramente ridicoli (1,53% sul PIL) rispetto a quelli francesi, tedeschi,
danesi, spagnoli (tutti pari al 3%), per non citare quelli finlandesi e danesi
(4%).
Di fronte a dati
simili si profila all'orizzonte con tutta evidenza una delle motivazioni che
spingono MIUR e mass-media a premere su forme di disinformazione sulla
professionalità docente che sconfinano nella
manipolazione della verità e nella diffamazione. Si cerca in sostanza di
convincere prima di tutto noi
operatori del settore e successivamente l'opinione pubblica che il lavoro non
viene prestato adeguatamente (come se
un caso di malasanità potesse comportare una condanna collettiva per
tutta la categoria dei medici, una sentenza erronea di un giudice potesse
assurgere a simbolo qualitativo di tutta la categoria, etc.), che anche la
nostra sarebbe una casta, “ricca” di privilegi e in sostanza parassitaria.
A
tutta questa situazione si aggiungano quattro anni di blocco sugli stipendi
(con conseguente perdita
del 25% del potere d’acquisto), senza più nemmeno l’indennità di vacanza
contrattuale e con
l’abolizione ormai sine
die degli scatti
di anzianità. A quest’ultimo proposito sarebbe opportuno suggerire ai “tecnici” del Ministero che sarebbe
corretto informare la rete Eurydice e, conseguentemente, la Commissione europea
da cui essa dipende attraverso l’EACEA, che allo stato attuale oltre a essere bloccato l’incremento stipendiale per assenza di
rinnovo contrattuale, è bloccato anche
il sistema della progressione per anzianità, che tuttora risulta operativo a
occhi stranieri che leggano tali rapporti. Aggiungiamo inoltre che
sarebbe corretto informare lo stesso organismo,
perché questo appaia a chiare lettere nelle schematiche pubblicazioni ufficiali
della stessa rete, su quale sia la
percentuale elevata di docenti precari che vengono chiamati annualmente a
mantenere in piedi, insieme ai docenti di ruolo, quella “macchina”
dell’istruzione pubblica (tale rimane nonostante i giochi linguistici e
l’evidente promozione delle scuole private cui tanto tengono i nostri governanti, quando dichiarano che i
contributi, non previsti dalla Costituzione, se non a seguito di abili e tendenziose interpretazioni
giuridiche, saranno garantiti e anzi incrementati), cui il paese sembra
in maniera così miope disinteressarsi.
Noi
firmatari del presente documento vogliamo affermare con forza come anche su
questi aspetti non
secondari della nostra dignità di lavoratori sia giunta l'ora di abbattere i
veli di omertà, le ipocrisie, le
falsificazioni che da troppo tempo aleggiano intorno.
Rigettiamo
inoltre i contenuti del Ddl 953 appena licenziato dalla VII Commissione della
Camera dei Deputati,
in quanto lesivi dei diritti e dei principi costituzionalmente garantiti di
libera espressione e di rappresentanza
all’interno delle istituzioni scolastiche.
In particolare
esprimiamo disappunto per il dettato dell’art. 1 commi 3, 4 e 5, nei quali si
prevede l’eliminazione de facto degli articoli del Testo Unico, posti a garanzia della
democratica partecipazione
alla vita scolastica (cui segue all’art. 13 l’eliminazione de iure degli stessi articoli del T. U. attraverso lo strumento
dell’abrogazione), per mezzo della sostituzione di tali istituti con statuti e regolamenti prodotti all’interno delle
singole scuole. Questi statuti “regolano l’istituzione e la composizione degli organi interni, nonché le
forme e le modalità di partecipazione della comunità scolastica”. In sostanza si attribuiscono pieni
poteri alla dirigenza (organo di gestione) e agli organi di indirizzo (secondo
quanto sancito dal D.Lgs. 165/01 riformato dal D.Lgs. 150/09, il cosiddetto decreto Brunetta, e all’art. 2 c. 1 del Ddl 953
sopra citato) nella concessione di diritti di assemblea, organizzazione
e proposta, finora costituzionalmente e normativamente garantiti. A fronte di
tale epocale e discutibile riforma, si fa un generico riferimento alla
valorizzazione del “diritto all'apprendimento
e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola”, del “dialogo
costante tra l’espressione della
libertà professionale della funzione docente e la libertà e responsabilità
delle scelte educative delle famiglie”, senza esplicitazione reale di
come rendere esecutiva tale proposta, nel momento in cui si demanda ogni
applicazione concreta agli statuti delle singole scuole. A nulla vale il
generico controllo dell'organismo istituzionalmente competente stabilito al c.
5 dell’art. 3 (in via transitoria l’U.S.R.),
se non sono resi chiari i criteri di valutazione di merito. Nella sostanza i diritti
di assemblea sanciti dagli articoli 12-15 del D.Lgs. 297/94 scompariranno dalle
normative nazionali e non sapremo forse mai
se e quando in tutte le scuole della Repubblica saranno ristabiliti concretamente
istituti ad essi similari.
A
noi sottoscritti appare quanto meno incredibile che al Consiglio dell’autonomia
(istituzione sostitutiva del Consiglio
d’Istituto, prassi tipicamente italiana di sostituzione terminologica, cui corrisponde spesso una modifica sostanziale che
cela l’erosione di diritti e prerogative) venga garantita la possibilità, seppure con la maggioranza dei due terzi dei
suoi componenti, di variare non solo
lo statuto dell'istituzione scolastica, ma anche le modalità di elezione,
sostituzione e designazione dei propri membri. Così, mentre con la legge di
stabilità assistiamo all’estensione della riserva di legge in contesti
specificatamente contrattuali, si elimina l’area riservata alla tutela legale,
in ambiti tanto delicati quali la partecipazione democratica alle attività di
controllo e di indirizzo dell’istituzione scolastica. Appare ancora più chiaro
quanto sia pericolosamente volto all’attacco
della libertà di espressione, di docenza e di libera fruizione della cultura
tale Consiglio
dell’autonomia,
nel momento in cui ad esso viene consegnato il diritto di designare i
componenti del nucleo
di autovalutazione. Questo organismo di 5-7 membri, che, in base art. 8,
prevede forme di raccordo con l’Istituto
nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di
formazione (INVALSI), dovrebbe valutare efficienza, efficacia e qualità
complessive del servizio scolastico, applicando criteri e parametri imposti da
un’istituzione che ancora oggi, a 8 anni dalla ratifica formale della sua
nascita, non ha saputo fornire indicazioni finalizzate alla crescita della
qualità della scuola, tranne la trasformazione in “quizzificio” di alcune fasi
della vita scolastica.
La designazione di
personale esterno all’istituzione scolastica in tale organismo, con
superficiale riferimento a competenze possedute (quali e in che modo verranno
certificate? chi sarà in grado all’interno dell’organo di indirizzo di
individuare tali competenze?), fornisce di fatto a personalità giuridiche
estranee la possibilità di esprimersi indiscriminatamente nella valutazione del
sistema scolastico, senza nessun tipo di garanzia di neutralità reale e
giuridicamente esplicitata.
Inaccettabile
appare, inoltre, la possibilità che il consiglio possa essere integrato, “con
il voto favorevole
di almeno i 2/3 dei componenti del consiglio stesso, da ulteriori membri
esterni, scelti fra
le realtà” extrascolastiche, “in numero non superiore a due”. Quest’ultimo
aspetto concederebbe una chiara
possibilità di interferenza da parte di enti e forze esterne (genericamente
definite “del territorio”) che, pur non
avendo diritto di voto (allo stato della proposta attuale), sarebbero autorizzate
a indirizzare a proprio favore le attività didattiche di una scuola, nata per
perseguire la formazione del cittadino più
che per poco nobili finalità individuali (la lettura degli art. 33, 34, della Costituzione italiana sarebbe utile per l’on.
Valentina Aprea, da troppi anni impegnata nella spasmodica ricerca di continue riduzioni degli spazi di democraticità
della scuola e indefessa fautrice
della assunzione del personale per chiamata diretta dei dirigenti scolastici).
Il vulnus giuridico, che si creerebbe, poi, con l’ingresso
definitivo di entità esterne all’interno dell’apparato scolastico nella sua
forma diffusa, porterebbe a limitare l’imparzialità dell’amministrazione e l’esclusività di servizio alla Nazione cui sono
tenuti i docenti e il personale della scuola (cfr. art. 97 e 98 della
Costituzione) e, in sostanza, alla riscrittura dello stesso dettato
costituzionale.
Appare,
altresì, grave il contenuto dell’art. 6, per mezzo del quale si delimita
definitivamente l’ambito di intervento
del Consiglio dei docenti (nuova definizione linguistica per il Collegio dei
docenti) all’interno della pura attività didattica, eliminando di diritto
quelle residue possibilità di consultazione
e elezione che il D.P.R. 275/99 (Regolamento dell’autonomia) e il D.Lgs. 165/01 non avevano ancora intaccato. Emerge
a nostro parere un’inaccettabile compressione dell’esercizio della collegialità, nel momento in cui
l’attività dei Consigli di Classe, anche in virtù dell’art. 13 che abroga gli artt. 5-7 del Testo Unico, perde quella
centralità che finora aveva avuto, affermando genericamente l’art. 6 che l’
“attività didattica di ogni classe è progettata e attuata dai docenti che ne
sono responsabili”, non precisando, per di più, la qualità di tale
responsabilità (contrattuale, extracontrattuale,
disciplinare, o tutte insieme?). L’indicazione superficiale del comma 2,
secondo cui il Consiglio di classe sarebbe una non meglio precisata
articolazione del Consiglio dei docenti, pur in continuità di vigenza del comma
1bis dell’art. 5 del D.Lgs. 297/94, venendo meno il restante art. 5 del
medesimo D.Lgs. e tutta la legislazione ad esso ricollegabile, creerebbe di
fatto un ibrido normativo, rispetto al quale apparirebbe riconfermata, oltreché
concretamente e giuridicamente garantita,
sopratutto la potestà valutativa di tali istituti. Infatti, ancora una volta si
demanda agli statuti di ogni singola scuola, divenuta una sorta di regno
indipendente all’interno dello Stato, ogni forma di collaborazione,
condivisione, partecipazione di alunni e genitori alla definizione e al
raggiungimento degli obiettivi educativi.
Ad
aggravare la natura dell’intervento “riformatore”, emerge anche il tentativo di
sottrarre all’ambito contrattuale la definizione oraria della partecipazione
alle attività “collegiali”, nel momento
in cui caratteristiche e forme di esecutività appaiono allo stato attuale della
proposta, demandate alla disciplina statutaria.
Se si estendesse
ulteriormente l’analisi ad ogni singola espressione del Ddl 953, troveremmo
senza ombra di dubbio ulteriori attacchi
alle prerogative democratiche previste per gli organi collegiali
delle istituzioni scolastiche, divenute ormai una
delle residue roccaforti dell’esercizio della democrazia di base, verso cui tanto ostili oramai
si mostrano i governanti del nostro Paese. A chi detiene il potere politico e ai poteri che lo
sorreggono fanno evidentemente paura il libero esercizio del pensiero, la libera espressione
delle idee e la loro altrettanto libera circolazione. Appare chiaro che simili provvedimenti lasciano
trasparire la idiosincrasia dei licenziatari di tale decreto verso la
salvaguardia di percorsi formativi dell’individuo finalizzati alla crescita del
senso critico, alla capacità di riflessione
e allo sviluppo di competenze utili a smascherare impietosamente gli
inganni e le mistificazioni di cui, spesso, si alimenta lo stesso potere.
Stride
altresì questo astruso e meschino tentativo di porre un definitivo bavaglio al
libero confronto democratico
all’interno delle istituzioni scolastiche con le dichiarazioni di facciata che
appaiono nel profilo culturale, educativo
e professionale delle scuole secondarie di secondo grado (D.P.R. 87, 88 e 89), nel momento in cui in esso si afferma
l’importanza fondante per gli alunni della “pratica dell'argomentazione e del
confronto” e, nel contempo, quella del “confronto tra le componenti della comunità educante, il territorio, le reti formali e
informali, che trova il suo naturale sbocco nel Piano dell'offerta
formativa”.
Probabilmente la VII
Commissione della Camera ritiene che, rendendo aleatoria l’esistenza dei momenti di dibattito, sia possibile massimizzare i
risultati degli stessi. D’altronde, i docenti sostenuti dal loro spirito di missione si sono sempre distinti per la
capacità di sanare le falle del sistema scolastico che, a più riprese, i
nostri governanti non si sono preoccupati di chiudere o, addirittura, hanno
aperto. È evidente che per questi “gestori” del bene pubblico vale sempre il
vecchio adagio secondo cui “bisogna sempre fare di necessità virtù”.
Alla
luce di tutte le riflessioni sopra esposte, noi docenti sottoscrittori del
presente documento riteniamo che l'entità
dell'attacco alla dignità dei docenti, al loro lavoro, al loro impegno professionale
e umano, al di là di qualunque possibile rimozione delle norme contenute nella
legge di stabilità, solo per il fatto di
essere stato concepito in maniera frettolosa e superficiale, pubblicizzato in modo fin troppo tempestivo e
altrettanto frettolosamente ritirato, rappresenti un atto grave che non
può non essere fermamente discusso e contestato.
L’intero
impianto normativo, che, a più riprese, tenta nella pratica di smantellare le
fondamenta stesse del diritto
costituzionale a una educazione del cittadino libera, gratuita e statale, deve
essere rigettato in toto.
Noi docenti siamo
fermamente convinti che il futuro di una Nazione non risieda nella ridicola,
generica e rapida approvazione di nuovi contenuti d’insegnamento dal vago
sapore patriottico, quanto in una più
tempestiva approvazione di provvedimenti seri, ponderati, condivisi con le
varie professionalità qualificate
del settore e di consistenti stanziamenti finalizzati al miglioramento della qualità di tutti gli strumenti utili al progresso e
alla crescita etica e culturale della Nazione medesima.
Invitiamo, pertanto,
docenti, dirigenti e lavoratori della Scuola ad adottare ogni possibile e
legale forma di protesta.
Aderiamo,
dunque, allo stato di agitazione di fatto realizzatosi in questi giorni nel
settore e invitiamo genitori, alunni e
cittadini a sostenerci nella difesa della Scuola Statale dagli assalti condotti in nome di una miope politica economica e
frutto di una cosciente azione di delegittimazione.
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