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mercoledì 20 marzo 2013

La scuola che (non) c’è



di Daniela Pia
Cosa è diventata questa scuola per la quale abbiamo studiato, ci siamo rimboccati le maniche e nella quale ci siamo spesi? Lo racconto con tre istantanee.
Ore 10, il collaboratore scolastico dell’istituto alberghiero nel quale insegno mi guarda sconsolato e mi dice professoressa, ma come facciamo? Siamo in due e solo in questo reparto ci sono 4 classi prime scoperte. Questi sono scatenati, ingestibili. Abbiamo circa 1200 studenti, provate a immaginare nei periodi di influenza, cosa capita...

Ore 12 e 30 mentre spiego la teoria del piacere di Leopardi mi avvicino a un banco e trovo, ben allineati davanti alla borsetta posta a mo’ di barricata: il lettore MP3, la trousse dei cosmetici, lo specchietto aperto e ben posizionato, la crema per le mani, il burro cacao, il caricabatterie, il cellulare, una barretta di cioccolata. Ma anche la letteratura. Nell’ora successiva poi ho provato a spiegare poesia senza che gli studenti avessero il libro di testo, altro che LIM. Nel frattempo non mi sono fatta mancare qualche sortita nell’aula a fianco, il cui docente era malato, dove pareva in atto un sabba.
E intanto mi chiedevo: cosa avrà voluto intendere nell’imporci la “valutazione” affidata a enti esterni, il governo Monti, in limine mortis? A leggere pare di ascoltare un «de profundis» alla libertà di insegnamento.
Probabilmente, nella sua infinita cura per la scuola di tutti, questo governo – non eletto e bocciato alle urne – voleva valutare come gestiamo la quotidiana emergenza. Oppure come ci arrabattiamo per stare al tempo coi mezzi tecnologici di cui si riempiono tutti la bocca, mentre noi usiamo le nostre tecnologie, in una scuola che vegeta ancora all’età della pietra per mancanza di fondi? O forse volevano capire come gestiamo l’ emergenza sicurezza in scuole fatiscenti, portandoci le maniglie da casa e provvedendo a sistemarle, per poter chiudere la porta delle aule? Magari, mi son detta, vogliono valutare come abbiamo promosso uomini e donne che non sono numeri o automi da addestrare, compilatori di crocette e quiz raccolti dalla spazzatura Usa. E ancora mi chiedevo: chi saranno questa marea di valutatori, e chi potrà valutare il loro operato se loro nulla sanno del nostro quotidiano inventarci?
Poi però sono uscita, finalmente, e mentre facevo la spesa una giovane donna mi ha sorriso e mi ha detto: «professoressa non mi riconosce?». E ho ritrovato una traccia del mio lavoro nel suo breve raccontarsi, nell’indignazione con la quale mostrava consapevolezza della deriva che tutto sta travolgendo, compreso il futuro della sua recente famiglia: «sono stata licenziata dal negozio di calzature nel quale lavoravo perché sono rimasta incinta, la proprietaria mi ha detto – te non ti posso più tenere, meno male che la tua collega non può avere figli».
E lì mi ha preso un malessere che si è trasformato in rabbia feroce che nessuno potrà valutare. Io oggi sento di essere un’educatrice, in un sistema che diseduca, autorizza il sopruso, cancella l’uomo e umilia la donna. Io oggi sono una educatrice che valuta la finzione di cui lo Stato si compiace, mentendo sapendo di mentire, quando parla di scuola pubblica. Oggi sono io che valuto ciò che ci hanno fatto e la valutazione è negativa, “signori della corte”. La condanna per ciò che è stato fatto alla scuola della Repubblica, la scuola di tutti e per tutti, è senza appello. A ciò si aggiunga la consapevolezza che il mondo del lavoro per il quale abbiamo preparato i nostri studenti è una finzione fatta di abusi indecenti che i governi succedutisi negli ultimi 20 anni hanno artatamente provveduto ad apparecchiare. Bocciata quindi ed espulsa da tutte le scuole “del regno” l’intollerabile incapacità di occuparsi dei nostri ragazzi di tecnici e politici di professione.

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