Sono passati dodici anni dalla legge 62/2000,
voluta dall’allora premier Massimo D’Alema e dal ministro
dell’istruzione Luigi Berlinguer. Con quel provvedimento
clericale, le scuole private – a maggioranza cattoliche –
ottennero la parità scolastica ed entrarono a far parte di un
unico sistema di “scuola pubblica”.
E cominciarono immediatamente a spacciarsi per “scuola
pubblica”, minimizzando il fatto che chi si iscrive deve
aderire al loro “progetto educativo” (quasi sempre
cattolicista) e occultando pressoché completamente la
propria natura privata...
Di pubblico, nella loro attività, ci sono
quasi soltanto i cospicui contributi che ricevono.
Contributi che gravano su tutta la comunità, ma che sono
destinati a finanziare progetti di parte. Ciononostante, con
sempre maggior frequenza i sostenitori delle scuole private si
lamentano che tali fondi non bastano, e che bisogna
aumentarli. L’aumento che chiedono deve per di più essere
consistente, perché l’amministrazione pubblica “ha tanto da
risparmiare, finanziando le scuole cattoliche”. E diffondono
inchieste che sosterrebbero tale tesi.
Ma è tutto oro quello che luccica?
Finanziare la scuola privata è un risparmio per l’amministrazione pubblica?
In prima fila a sostenere la tesi del risparmio c’è il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione
In prima fila a sostenere la tesi del risparmio c’è il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.
In Lombardia, dove negli ultimi vent’anni si è fatto regime, in
nome della sussidiarietà ha applicato estesamente il “dogma”
del sostegno economico alle scuole private. E proprio sul sito ciellino del Sussidiario,
a febbraio, è stata quantificata in sei miliardi la somma che
lo Stato risparmia ogni anno devolvendo circa seicento milioni
alle scuole private. La stima era stata effettuata da Maria Grazia
Colombo, presidente dell’Agesc (Associazione GEnitori
Scuole Cattoliche), secondo la quale “lo Stato per ogni studente
della scuola statale paga 5.200 euro l’anno contro i 530 euro per ogni
studente della scuola paritaria”.
Tale stima saltava fuori proprio nel momento in cui il governo cominciava a minacciare (assai blandamente, come poi si è visto) di imporre l’Imu
anche sugli immobili di proprietà ecclesiastica utilizzati
per impartire l’istruzione cattolica a pagamento. L’Agesc
però ci ha dato dentro, e il mese dopo diffondeva un dossier (prontamente enfatizzato dal sussidiato quotidiano dei vescovi Avvenire)
con l’intento di confermare la veridicità delle
affermazioni della sua presidente. Il dossier è stato poi
aggiornato a ottobre, presentando un semplice riepilogo. Un altro dossier è stato a sua volta presentato a settembre dal sussidiato Messaggero di Sant’Antonio, come rilanciato dall’altrettanto sussidiato settimanale Tempi.
Le basi di calcolo sono sempre diverse ma il totale si aggira
sempre sui sei miliardi. Una cifra curiosamente simile ai Costi della Chiesa calcolati dall’Uaar.
A maggio era stato presentato su Avvenire
un altro dossier ancora, questa volta circoscritto alla Regione
Lombardia. Il risparmio – nel solo regno di Cielle
- ammonterebbe a un miliardo e trecentomila euro. Il
calcolo è stato effettuato da Giuseppe Colosio: “non un membro
della Chiesa, ma il «rappresentante» del ministero
dell’Istruzione in questo territorio da sempre motore del
Paese”. Un rappresentante, scrive la voce dei vescovi con tono
trionfalistico, che “sconfessa quanti accusano tali istituti
di sottrarre risorse alla comunità civile”.
Un ragionamento sbagliato
In realtà Colosio, nominato direttore
dell’ufficio scolastico dall’allora ministro
dell’istruzione, la clericale Mariastella Gelmini, è tutto
fuorché un uomo imparziale: insegna all’Università
Cattolica e collabora attivamente con la Compagnia delle Opere. In poche parole, è solo l’ennesimo ingranaggio del kombinat clerico-imprenditoriale lombardo.
la cifre presentate dal mondo cattolico sono incomplete, perché si limitano al solo contributo annuo statale
E
tuttavia non è il fatto che le argomentazioni provengano
soltanto da uomini di parte a inficiare la tesi del risparmio.
Innanzitutto, la cifre presentate dal mondo cattolico sono incomplete, perché si limitano al solo contributo annuo statale,
dimenticando quelli provenienti da altre amministrazioni
pubbliche. Che, come ha mostrato l’Uaar nell’inchiesta I Costi della Chiesa,
sono ingenti e superiori al contributo statale stesso: almeno
ottocento milioni di euro. A questa cifra occorre poi
aggiungere l’imposta sugli edifici delle scuole cattoliche
che, com’è per l’appunto emerso quest’anno in seguito alle loro lamentele,
gli enti ecclesiastici risolutamente non pagano: almeno altri
duecento milioni. Abbiamo così una cifra inferiore di un
miliardo, che si potrebbe ulteriormente ridurre se
calcolassimo il risparmio che si otterebbe eliminando
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole
statali: un altro miliardo e mezzo ogni anno.
Il vizio nel ragionamento cattolico
sta tuttavia ancora più a monte. Perché se, per ipotesi, il
contributo pubblico alle scuole paritarie cattoliche si
riducesse a zero, il risparmio per lo Stato – calcolato come lo
calcola il mondo cattolico – aumenterebbe ancor di più: di
circa un miliardo e mezzo.
Non è infatti dimostrato che, qualora le
amministrazioni pubbliche cessassero i loro munifici
versamenti alle scuole paritarie cattoliche, i loro studenti
tornerebbero in massa alle vere scuole pubbliche. In fin dei
conti, quando alle scuole private non finiva un solo euro, tali scuole
esistevano e sopravvivevano ugualmente grazie alla rette e
agli sponsor privati, e da quando ci sono i contributi pubblici
l’aumento degli studenti privati c’è sì stato, ma in misura
limitata (+10% spalmato su sei anni) e senza intaccare il numero di studenti della scuole statali.
I genitori che iscrivono i figli alle scuole cattoliche non lo
fanno per ragioni di convenienza economica, viste le
profumatissime rette che devono pagare (e che non risultano
calate da quando esistono i sussidi pubblici), ma per
preferenze educative, per avere un più rigido controllo, per
garantire ai figli maggiori possibilità di promozione, per
scelte legate al censo o al ceto sociale o per evitare che si
“contaminino” con le idee che circolano in scuole ben più
pluraliste.
Non solo: ammesso e non concesso che tali
studenti tornino in massa alle vere scuole pubbliche, l’impatto
sarebbe minimo. Perché gran parte dei costi pubblici sono fissi
(stipendi degli insegnanti e mantenimento degli edifici) e
non variabili. Qualche studente in più ripartito
razionalmente non farebbe aumentare in maniera
significativa i costi. Si tratta di semplici economie di
scala, e la “scala” adeguata per ottenere tali economie ce l’ha
soltanto la scuola statale.
Soltanto cancellando la scuola pubblica il ragionamento tutto economicista del mondo cattolico fila
Come
si vede, la tesi cattolica si riduce a un concetto molto
semplice: se lo Stato non investe nella scuola, risparmia.
Elementare, Watson. Otterrebbe lo stesso esternalizzando tutti
gli uffici pubblici in Albania, o eliminando del tutto i
trasporti pubblici: tanto esistono le auto private, no? Soltanto cancellando la scuola pubblica il ragionamento tutto economicista del mondo cattolico fila. E
sarebbe perfettamente coerente dal punto di vista
dottrinale: era esattamente quanto voleva anche il beato Pio IX,
contrario all’”istruzzione” (con due zeta), la cui
obbligatorietà definiva “un flagello”.
Sostenere tesi del genere è ovviamente
lecito, e i cattolici non sono gli unici a farlo: in prima fila vi
sono infatti gli ultra-liberisti. I cattolici sono
ultra-liberisti?
Contro la scuola privata anche molte ragioni non economiche
Curioso che ad argomentare in modo così
“materiale” siano proprio i sostenitori del primato
“spirituale”. Se non esistessero gli ospedali pubblici, non
tutti potrebbero accedere ai servizi sanitari (come per
esempio le interruzioni volontarie di gravidanza). Le
discriminazioni aumenterebbero, anziché ridursi. Se ciò
non accade, è proprio perché la nostra è (ancora) una democrazia. Un
sistema che in Europa solo lo Stato della Città del Vaticano, che
concentra tutto il potere nelle mani di una sola persona, rifiuta
esplicitamente di applicare.
Lo strano argomentare cattolico non
finisce qui. La Chiesa rivendica il valore coesivo della
religione, ma non si premura di spiegare quale coesione vi
sarebbe in un sistema scolastico diviso in tante
comunità quante sono le confessioni religiose. Si avrebbe
sicuramente una coesione (forzosa) all’interno di tali ghetti identitari, ma la società esterna, più che un gruppo coeso, ricorderebbe il Libano.
La Chiesa rivendica peraltro anche il
diritto alla libertà religiosa. Lo fa senza sosta, ma viene
spesso il sospetto che pensi esclusivamente alla propria,
di libertà. Cosa fare in quei Comuni dove, “grazie”
all’applicazione del principio di sussidiarietà, l’unica
scuola disponibile è una paritaria caratterizzata da un
progetto educativo esplicitamente cattolico? Dove finisce,
in questi casi — che, in piccoli paesi, sono già adesso realtà — la libertà di coscienza e il tanto sbandierato diritto dei genitori all’educazione dei propri figli?
la qualità dell’insegnamento privato è scarsa
Non
sono, queste, le uniche sostanziali assenze nel discorso
cattolico. Un silenzio tombale è per esempio riservato alla
qualità dell’insegnamento. Eppure tutti gli studi effettuati,
siano essi opera di organismi internazionali (l’Ocse), realtà indipendenti (la Fondazione Agnelli) o lo stesso ministero dell’istruzione, sono convergenti: la qualità dell’insegnamento privato è scarsa, assai più scarsa di quella impartita nella scuola di tutti.
Le cause di questo spread qualitativo
sono del resto note. Gli insegnanti delle scuole private sono
sottopagati: anche perché viene fatta loro tintinnare, in
contropartita, l’acquisizione di un punteggio utile a
scalare le graduatorie pubbliche. Secondo l’Istat, una fetta consistente di tali docenti lavora in nero. Molti non hanno neppure l’abilitazione prevista dalla legge, e non sono addirittura mancate le segnalazioni circa l’utilizzo di obiettori di coscienza.
È noto inoltre come le scuole private siano
spesso la soluzione di ripiego per gli studenti bocciati in
quelle statali, e le classifiche dei “diplomifici” (cfr. Corriere della Sera e Messaggero)
confermano come le scuole cattoliche siano “ripieghi” assai
seguiti. Difficile in ogni caso non essere generosi verso
clienti chi pagano rette da capogiro: non stupiscono
percentuali del 100% di promossi, come al liceo privato di cui è preside la fervente cattolica Elena Ugolini, nominata sottosegretario all’Istruzione dal premier Monti.
La mancanza di inclusività della scuola
privata è infine confermata anche dai numerosi esempi di
diniego di accesso ai disabili, come hanno mostrato le inchieste delle Iene o, per restare sull’attuale, il caso della bambina di due anni cacciata perché sorda. Né va meglio con bambini e ragazzi stranieri, la cui presenza nella scuola paritaria è minoritaria.
La scuola di tutti ha molti limiti, ma continua a essere la scelta migliore
Sia chiaro: non stiamo difendendo gli sprechi
presenti nel sistema statale. Che persistono nonostante gli
interventi degli ultimi anni, forse perché si è preferito
tagliare con l’accetta la didattica, anziché eliminare
burocrazie e inefficienze. Tuttavia, come abbiamo mostrato,
spostare fondi dalla scuola di tutti a quella privata costituisce
uno spreco assai maggiore. Nonostante decenni di ministri
clericali abbiano fatto di tutto per picconare l’istruzione
pubblica, e nonostante i partiti (Pd in testa)
sostengano ormai “tutti insieme appassionatamente” la scuola
privata cattolica, quest’ultima è ancora molto lontana dal
rappresentare la migliore soluzione per la maggioranza dei
cittadini.
Le scuole private non potranno mai, per definizione, essere la scuola di tutti. Rappresenteranno invece sempre progetti educativi di parte: la
cui esistenza è garantita dalla Costituzione, purché “senza
oneri per lo Stato”. I cittadini che lo vogliono sono liberi di
destinare soldi a istituti meno competitivi di quelli
statali. Ma non chiedano soldi alle tasche, sempre più vuote,
di tutti gli altri.
L’associazione
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